Cose Turche

16.08.1995 19:43

Turchia: così vicina, così lontana! Niente di più vero, ma prima di partire, tuttavia, le perplessità non mancavano… Arrivare in Turchia per quanti come noi non hanno familiarità con la cultura, gli usi ed i costumi della società mussulmana, l’impatto è stato veramente tale, ossia un urto alle nostre coscienze ed abitudini. Questo nonostante la Turchia sia, tra gli stati mussulmani, il più aperto verso l’occidente e uno dei più permissivi. Basta pensare al fatto che è un produttore di birra e vino, benché le rigide osservanze della religione islamica impediscano di consumare bevande alcoliche. Una filosofia, dunque, tollerante: non tutti sono fedeli di Allah, per tanto, ognuno è libero di scegliere. 

La massima "cose turche", spesso pronunciata per rimarcare episodi bizzarri, fuori della logica comune e dall’ordinario, diverrà molto naturale nel corso di tutto il nostro viaggio. 

S’incomincia all’aeroporto di Istanbul dove facciamo scalo prima di giungere a Izmir (Smirne). Abbiamo a nostra disposizione due ore prima della partenza e pensiamo, allora, di effettuare un primo cambio dei soldi. Lascio così i miei bagagli in custodia a Mavi e mi dirigo verso la cassa del cambio, con 500 mila lire nel marsupio, che tiro fuori e consegno allo sportello. Dopo molti minuti, ormai spazientito dall’attesa, vedo il responsabile del bancone uscire dalla cabina e recapitarmi un sacchetto, tipo quello della spesa, con dentro banconote turche pari ad un valore di 14 milioni di lire. Rimango, a dir poco, sbalordito e soltanto dopo qualche minuto ritorno in me. L’idea era quella di contare i soldi per accertarmi che la cifra coincidesse alla somma cambiata, ma desisto. Intuisco, però, che sarà una vacanza economica, e lo sarà. Il cambio di denaro fatto all’aeroporto di Istanbul rimarrà il solo effettuato durante tutto il viaggio. 

La prima cosa in assoluto che colpisce il visitatore in Turchia sono i muezzin che dagli altoparlanti dei minareti, delle moschee, richiamano i fedeli alla preghiera per ben cinque volte al giorno. La preghiera del mattino, alle 05.00, sarà per tutti noi una sorta di incubo. Quando sentiamo il muezzin, la prima volta, a Selcuk, incuriositi ci alziamo e ci sporgiamo dalla finestra del nostro albergo, in tempo per vedere due anziani, che steso il fazzoletto a terra, s’inginocchiano e pregano, naturalmente, rivolti verso La Mecca. A Selcuk, dove trascorriamo il nostro primo giorno in terra turca, mangiamo subito quello che è l’indiscusso piatto nazionale turco, cioè il kebab. In una trattoria, sulla piazza principale, ordiniamo un kebab al cartoccio, uno alla panna, tre allo yogurt e uno in umido. Le varianti della pietanza sono molteplici, ma si tratta essenzialmente di carne alla griglia di montone o agnello, insaporita di mille spezie e tanta cipolla! Se decidete di mangiarlo è d’uopo per la notte comprarsi una bottiglia d’acqua, meglio se gasata, da tenere sul comodino, affianco al letto. Durante il nostro soggiorno in Turchia il kebab (la versione fast food), non il piatto, ma il panino, diverrà il nostro pranzo quotidiano. Lo troverete dappertutto!

Con la bocca ancora infuocata, per via delle spezie contenute nel kebab, ci fermiamo in un piccolo bar dove chiediamo da bere qualcosa di dissetante, purché sia una bevanda tipica turca. Dopo pochi minuti ci portano un vassoio con sei bicchieri di raki, un aperitivo dall’inconfondibile gusto di anice, che assomiglia molto alla nostra sambuca. Servito allungato con acqua e ghiaccio ed accompagnato da pistacchi tostati, è sì dissetante, ma anche un tantino alcolico. 

Il mattino seguente facciamo visita alla cittadella bizantina che si erge sulla collina, a ridosso del paese. Il fortilizio è ancora molto ben conservato. I suoi massicci bastioni sono rafforzati da quindici grosse torri, dalle quali si ammira un bel panorama. 

Al sito archeologico di Efeso, un tempo importante porto, prima, sotto il dominio dei persiani e, poi, degli spartani e dei greci, ci propongono di effettuare un tratto del cammino su un carretto malandato, trainato da un asino. Accettiamo soltanto per accontentare il bambino che ci promuove la corsa. Visitiamo la Tomba dei sette dormienti, camminiamo per la via Marmorea, vediamo l’Agorà, il grande Teatro e la famosissima Biblioteca di Celso. Giunti, poi, alla Casa del Piacere confrontiamo la lunghezza del nostro piede con quella dell’impronta incisa, su una targhetta, all’ingresso della casa: solamente chi supera determinate "dimensioni" ha la possibilità di entrare in tale complesso. Efeso è bellissima, ma con troppi, troppi turisti. I monumenti sono ricoperti di corpi umani e quasi non si riescono a vedere. Ritornati a casa dovremmo amaramente costatare come pure le fotografie siano rovinate dalla moltitudine di turisti presenti. E’ un vero peccato non poterla apprezzare.

Grazie alle buone indicazioni stradali e alla disponibilità della gente non è difficile orientarsi e raggiungere Pammukale. Una forte impazienza ci assale quando i segnali indicano ormai solo più pochi chilometri. Abbiamo tanto desiderato raggiungere questo posto che siamo sicuri di non restarne delusi. Intanto attraversiamo un angusto complesso con case, alberghi, ristoranti, negozietti di souvenir e numerosi scavi in corso. Nulla lascia presagire il paesaggio strabiliante che di li a poco vedremo. Parcheggiata l’auto e la moto, proseguiamo a piedi ed iniziamo ad intravedere un luogo fiabesco e magico costituito da rocce di un bianco abbagliante, ancora qualche passo e davanti ai nostri occhi si spiega, lungo tutto il fianco della montagna, una fantastica formazione di castelli pietrificati, stalattiti e cataratte d’acqua calda che creano delle piccole piscine di color azzurro e verde. Viene spontaneo svestirsi, bagnarsi e trascorrere tutta la giornata all’insegna del relax. Tanto più che queste acque hanno proprietà curative. Vale la pena fermarsi fino al tramonto per vedere il bianco accecante delle rocce, del mezzogiorno, trasformarsi via, via in un bianco più tenue fino all’arancio e al rosa del calar del sole. 

Alla sera scherzando con i proprietari della pensione che ci ospita io e Ciocio veniamo trascinati a forza in piscina e con noi anche i nostri marsupi. Morale: trascorreremo la notte a stendere nelle rispettive camere ben 30 milioni di banconote turche. 

Il giorno seguente durante la colazione, che per tutti i quindici giorni consisterà in formaggio fresco, pomodoro, cetriolo, olive, uova sode, confetture di frutta (scadute) e l’immancabile tè alla mela, avvertiamo una leggera scossa di terremoto che alcuni vivono quasi con divertimento, ma altri con molto spavento.

Riprendiamo il viaggio risalendo una valle laterale del fiume Vandalas, verso Afrodisia. La giornata è calda così usufruiamo più di una volta delle docce per le auto che si trovano presso i benzinai o sui cigli di qualche piazzola lungo la strada. Sono messe apposta perché i conducenti possano rinfrescare le lamiere della macchina e rendere sopportabile la temperatura all’interno dell’abitacolo. Impieghiamo più tempo del previsto poiché, in tutte quelle che incontriamo, ci fermiamo a bagnare l’autovettura, … e non solo. 

Sulla strada vediamo un’infinità di venditori di olive, ma ad attirare i nostri palati sono dei bambini, degni di essere giocolieri in un circo, che tengono dei grossi vassoi in testa, pieni di deliziose ciambelle di pasta di pane, ricoperte da semi di sesamo. Queste ciambelle che ricordano quelle che si mangiano all’Oktoberfest sono buonissime e ne mangeremo a volontà, nonostante la colazione consumata da poco. 

Raggiungiamo, quindi, Afrodisia, città consacrata alla dea della bellezza e dell’amore. Si respira tutt’altra atmosfera rispetto a quella affollata di Efeso. Siamo da soli a visitare le rovine e si ha tempo e modo per godersele. La costruzione più importante è l’Ippodromo, dalla pianta rettangolare allungata, con le estremità arrotondate, con 22 ordini di gradini e 30.000 spettatori di capienza. Fu costruito nel I secolo d. C. ed è uno dei più belli e meglio conservati del mondo. Notevoli sono pure il Teatro, l’Odeon e soprattutto il Tempio di Afrodite, in posizione isolata rispetto al resto delle rovine. 

Calpestando le innumerevoli vestigia della penisola anatolica, dell’antica Asia Minor dei Romani, non si può dimenticare che gli Italiani, secondo la mitologia, sono figli di questa terra: Enea, un troiano - oggi diremo un turco - approdò dopo varie peregrinazioni nelle terre del Lazio e dalla sua stirpe nacquero Romolo e Remo.

Alla sera in una lokanta, di un piccolo e sperduto paese della Caria, ci abbuffiamo di borek, il classico pane arabo. La peculiarità di questa trattoria in cui ci siamo fermati sta’ nel fatto che lo servono appena sfornato. Potete immaginarne la bontà. Ordiniamo non so più quanti cestini di borek, che accompagniamo con dei bocconcini di petto di pollo, naturalmente ben speziati. Il proprietario, meravigliato e allo stesso tempo soddisfatto dei nostri apprezzamenti verso il suo pane, alla fine della cena ci accompagnerà in cucina dove due donne, con il chador in testa, sono impegnate ad impastare la pasta. Accanto un uomo provvede ad infornare il borek. 

Ci stiamo ritirando, a piedi, presso la casa della famiglia che ci ospita per la notte, sistemazione trovata dopo che siamo stati avvicinati dal figlio che pattuglia l’entrata del paese per accaparrarsi gli stranieri in arrivo, quando diventiamo involontari protagonisti della preghiera serale del venerdì. In Turchia il venerdì equivale alla nostra domenica. Non si lavora e i negozi sono chiusi. Assistiamo allo spettacolo dal cancello di una moschea il cui cortile è pieno di fedeli raccolti per la funzione. Vediamo soltanto uomini, aventi in testa un copricapo bianco ricamato. 

Sono trascorsi tre giorni dal nostro arrivo in Turchia e, tra una visita e l’altra, ora architettonica, ora paesaggistica e ora culinaria percepiamo le prime differenze con la nostra società e cominciamo ad intuire quanto maggiori saranno quando visiteremo l’interno del paese