Macchu Picchu: la città perduta degli Incas.
Cosa non è ancora stato scritto sulla località più famosa e spettacolare dell'intero continente Sud Americano? I romanzi si sprecano, gli studi storici e archeologici si susseguono, eppure Machu Picchu resta una città sconosciuta e segreta. Sono ormai passati novant'anni dalla sua scoperta, ma la celebre "Città perduta degli Incas" non ha perduto nulla dell'alone di mistero che la circonda.
Dopo più di due secoli d'infruttuose ricerche, il 24 luglio 1911, l'archeologo statunitense Hiram Bingham, guidato da Melchor Arteaga, un contadino della zona, scoprì finalmente, la città di Machu Picchu. In realtà le rovine trovate da Bingham non erano quelle che lui e i suoi predecessori avevano invano cercato, della città di Vilcabamba e si trattò quindi di una scoperta ancora più sensazionale, di una città Inca di cui non si conosceva neppure l'esistenza. La scelta del nome delle ignote rovine fu naturale e scontato: Machu Picchu, appunto - che in lingua quechua significa "cima vecchia" - cioè il nome della montagna sulla quale la città giace. In poco tempo le rovine sarebbero passate alla storia con l'altisonante appellativo, che conservano tuttora, di "Città perduta degli Incas". Allora Bingham non poté rendersi subito conto della grandezza e dello stato di conservazione del sito per via della lussureggiante vegetazione che, in buona parte, ricopriva gli edifici. Le cronache di quella gloriosa giornata citano la sua sorpresa quando, sul luogo, trovò insidiata una coppia di indios che viveva di agricoltura sugli antichi terrazzamenti della città incaica.
Sono le otto del mattino quando con il treno locale partiamo dalla stazione ferroviaria di San Pedro, a Cuzco, verso Puente Ruinas e non Aguas Calientes, che è l'ultima fermata dei treni turistici. Il treno locale prosegue, infatti, fino a Quillabamba. La stazione di Puente è quella successiva ad Aguas, da cui dista, precisamente, due chilometri. Il giorno precedente, in un'agenzia di viaggi, avevamo prenotato quattro posti, in seconda classe, alla modica cifra di 26 nuevos soles, circa 16.100 lire.
Il treno percorre i 112 chilometri in circa quattro ore. Il nostro è l'ultimo convoglio della giornata. Saremo gli ultimi ad arrivare alle rovine, ma anche a lasciarle in quanto il ritorno è previsto per le sei del pomeriggio. Il treno abbandona la città di Cuzco risalendo a zigzag le inclinate pendenze della montagna. S'immette, di volta in volta, in binari morti per prendere la necessaria rincorsa utile per risalire la successiva rampa. Si procede in questa curiosa maniera per almeno una trentina di minuti, fino al passo denominato El Arco, a nord-ovest della città. Da questo momento in poi, la ferrovia, prosegue in una lunga e continua discesa fino alla valle dell'Urubamba. Nonostante il lento procedere del treno, il viaggio è interessante per via del contatto umano che si ha con la gente. Questo è infatti il motivo che ci ha spinti a preferire il treno locale. A differenza della littorina e dell'autovagon, riservati esclusivamente ai turisti, sull'affollatissimo treno locale gli stranieri come noi sono pochi e predomina la gente autoctona. Si sta' stretti, è vero, nel mezzo di una bolgia di gente che sale e scende in continuazione dal treno e si respira aria viziata dalle merci e dagli animali che essi portano con sé. Nel corridoio del nostro vagone stazionano una gabbia di polli e, addirittura, una capra. Aggiungeteci i sacchetti di spezie, le cipolle, i quintali di foglie di coca, e quant'altro, contenuti negli ahuayos, i rettangoli di stoffa delle donne, e non sarà difficile immaginare la babilonia. Tra continui e ripetuti scambi di mercanzia, in mezzo a donne occupate ad allattare il proprio figlio, tra uomini intenti a discutere calorosamente su chissà quali argomenti, giovani desiderosi e curiosi di scambiare parola con dei forestieri, arriviamo a destinazione a Puente Ruinas, la fermata di Machu Picchu, attraversando letteralmente il bel mezzo di un mercato. Un minibus attende i passeggeri da portare alle rovine. Altri otto chilometri su per una strada sterrata e polverosa che, tornante dopo tornante, s'inerpica su uno degli imponenti cocuzzoli di roccia granitica, che contraddistinguono il paesaggio, sulla cui sommità sorge la città di Machu Picchu.
Il 26 agosto 2000 è per tutti noi una sorta di 24 luglio 1911. L'emozione è palpabile. Soltanto qualche minuto ci separa da una meta da sempre agognata. Eccola! Machu Picchu appare d'improvviso in tutta la sua grandezza dopo l'ennesima curva a gomito. Le sensazioni, indescrivibili, sono le stesse provate in altri meravigliosi luoghi come, per esempio, la piana di Giza, Petra e il Taj Mahal. Per qualche minuto si rimane come smarriti, quasi ipnotizzati, e senza fiato. Machu Picchu è proprio come la s'immagina. Tale e quale ai documentari e alle foto delle riviste e dei cataloghi, è sorprendente!
Sono le 12:30, per tanto attraversiamo le rovine per dirigerci immediatamente al chiosco d'ingresso della salita all'Huayna Picchu, "cima giovane" in lingua quechua. Dalle 13:00 in poi, infatti, non è più consentita la scalata al monte che s'innalza proprio dietro le rovine. Occorre firmare un registro, una specie di autocertificazione con cui si solleva la direzione del sito archeologico da ogni responsabilità in caso di incidenti. E' una misura resa necessaria dalle frequenti disgrazie che accadono. Le statistiche parlano di un morto ogni tre anni nonostante i passaggi più pericolosi ed esposti siano attrezzati con corde e scale ricavate nel terreno. L'ascesa è, dunque, impegnativa e richiede circa un'ora. Una volta giunti in cima, un panorama indimenticabile ripaga abbondantemente dello sforzo compiuto. La veduta sulla valle dell'Urubamba è splendida e la vista dall'alto di Machu Picchu è superba. L'ampio orizzonte, a 360°, rende magnificamente l'idea dell'incredibile ambiente circostante e della vertiginosa posizione della città.
Alle tre in punto siamo di ritorno e iniziamo la visita delle rovine, partendo dalla Roccia Sacra, il grosso monolito, a forma di felino, che s'incontra subito dopo il sentiero dell'Huayna Picchu. Nel frattempo la maggior parte dei turisti è già ripartita per Cuzco. Possiamo goderci il luogo quasi in completa solitudine: roba da non credere. Attraversiamo la città passando ora per le sue piazze e templi, ora per le lunghe scalinate, ora per le porte e le abitazioni. Arrivati all'Intihuatana - pressappoco "il pilastro in cui s'impiglia il sole", in lingua quechua - ci soffermiamo qualche minuto in più. E' il punto più importante e famoso delle rovine. L'Intihuatana non serviva ad indicare l'ora come erroneamente spesso si pensa, bensì il periodo dell'anno. Utilizzando i suoi angoli gli astronomi Incas prevedevano i solstizi, cosicché il sovrano poteva far credere ai sudditi che il ritorno delle giornate estive era sotto il suo stretto controllo. È l'unico rimasto perché gli spagnoli li hanno distrutti tutti con il proposito di cancellare quanto credevano un culto blasfemo. Una costruzione, curiosamente chiamata, Capanna del Custode della Roccia Funeraria, è uno dei pochi edifici restaurati, con tanto di tetto di paglia che era la copertura originaria delle costruzioni. E' uno dei misteri degli Incas: perché loro che erano tanto bravi a trattare e lavorare la pietra costruivano i tetti delle proprie abitazioni con della semplice paglia? Si tratta di una delle prime cose che colpisce il visitatore a Machu Picchu: la totale assenza dei tetti delle case essendo chiaramente la paglia deperibile. La Capanna del Custode della Roccia Funeraria è anche conosciuta come il mirador e di qui ammiriamo, per l'ultima volta, la sublime veduta della "Città perduta degli Incas" e scattiamo la classica foto.
Lasciamo Machu Picchu, per ultimi, alle 17:15. Venti minuti dopo siamo di nuovo a Puente Ruinas seduti sulla banchina, ad aspettare il treno per Cuzco. Stiamo in silenzio, ma non perché siamo stanchi. Ognuno di noi è assorto a raccogliere nel cassetto dei propri ricordi, per portarsele dietro tutta la vita, le indelebili immagini di uno dei luoghi più fantastici del mondo, per il meraviglioso connubio tra l'ambiente naturale e quello monumentale architettonico.
Nonostante la mole di studi tutt'oggi le notizie raccolte intorno a Machu Picchu sono approssimative. L'ipotesi si consumano e si moltiplicano. La sua costruzione risale, verosimilmente, intorno al X - XI secolo e fu molto probabilmente abbandonata, prima ancora dell'arrivo degli spagnoli. Questo spiegherebbe come essa non viene mai citata nelle cronache dell'epoca. I conquistatori non ne conoscevano l'esistenza e per questo motivo non fu mai saccheggiata. Ma che cosa era Machu Picchu? Una fortezza o, piuttosto, un centro di culto? La capitale degli Incas o il rifugio dell'ultimo imperatore Manco Capac? Un osservatorio astronomico o, piuttosto, una città abitata da sole donne? Perché gli Incas costruirono una città tanto grande, in un luogo così inospitale? Oggi l'ipotesi più accreditata è quella che fosse il più importante centro cerimoniale degli Incas. Ma questa è soltanto l'ultima delle tante fantasiose teorie, d'accettare ma non in senso assoluto poiché, presto, delle nuove ipotesi saranno presentate o, magari, ritorneranno attuali quelle vecchie. L'unica giusta considerazione è che resterà difficile scrivere la storia di Machu Picchu, essendo gli Incas un popolo che non conosceva la scrittura, così, ancora oggi, continua ad essere un luogo segreto. Per noi è bello che sia e resti sempre tale: inesplicabile ed oscuro. In fondo, è anche questa la meraviglia di Machu Picchu, il mistero che gelosamente conserva su di sé.