"Reportage di Viaggio" è la raccolta dei viaggi organizzati da Socchi Adriano, titolare dell'agenzia CULTURE LONTANE


Sud Lipez: l'avventura esiste ancora.

10.09.2000 20:23

Abbagliati dal bianco ottenebrante del salar, appena superato, attraversiamo ora un territorio completamente grigio, la cui superficie è cosparsa di microscopici cristalli. La sensazione è quella di essere avvolti da un enorme manto argenteo il quale, man mano che ci addentriamo, lascia spazio agli stupefacenti colori delle montagne della catena andina. Sarà forse per il bianco accecante ancora impresso nei nostri occhi, ma qui, tra questi monti, ci circondano rossi, bruni, verdi, gialli, marroni, viola e neri. Montagne alla nostra destra e alla nostra sinistra, i ricordi di bellissimi paesaggi alle spalle e davanti l'ignoto orizzonte con ancora tanti luoghi da scoprire: siamo nel bel mezzo delle Ande, nel Sud Lipez, una delle zone più inospitali della terra. La densità di popolazione è di soli 0,5 abitanti per chilometro quadrato, le condizioni atmosferiche ai limiti della resistenza umana, si è costantemente sopra i 4.000 metri d'altitudine. Come sempre succede, la bellezza dei luoghi non corrisponde a climi con condizioni favorevoli all'uomo e quando arriviamo al villaggio di San Juan, nel tardo pomeriggio, non appena lo si vede materializzarsi viene spontaneo chiedersi: "cosa ci fa' un villaggio a queste altitudini, nel bel mezzo di queste impervie lande?..." Eppure c'è ed esiste. 


"Solamente per ospitarci" si direbbe, e infatti, passeremo la notte presso una famiglia. Scarichiamo i bagagli dal fuoristrada, senza neppure presentarci. "Ci sarà tempo più tardi" ci rassicura Ibert, esortandoci a far presto. Così ripartiamo immediatamente per andare a visitare, prima che scenda la notte, alcune tombe precolombiane recentemente scoperte da una troupe archeologica francese. Ibert è tutto il giorno che ne parla. La nostra guida, nel difficile tour boliviano del Sud Lipez, si rivelerà, oltreché bravissima, un vero compagno di viaggio. Ha insistito affinché venissimo a vedere queste benedette tombe… e non si sbagliava. Sul posto, a prima vista i cumuli funebri di pietra non lasciano supporre gran che d'eccezionale, ma basta varcarne l'ingresso per cambiare opinione. Si prova la sensazione di scoprire un tesoro o di violare e profanare un luogo sacro. All'interno oltre allo scheletro del defunto, ancora con gli abiti indosso, si trovano suppellettili e manufatti in un caotico ed esaltante disordine. Ibert intuisce il nostro stupore. E' soddisfatto di non averci deluso. Al ritorno, pur nella penombra della sera restiamo colpiti dal territorio circostante il villaggio. La vita in questo luogo sperduto deve essere durissima. Solo una robusta graminacea quale la quìnua (una sorta di granoturco) può essere coltivata. Per cena, neanche a dirlo, quìnua riscaldata con carne tritata e formaggio. I pareri del gruppo, in proposito, sono assai discordanti, c'è chi la trova ottima e chi no. Prima di coricarci discutiamo seduti intorno al tavolo con il capo famiglia, Fernando, un uomo a cui davamo 60 anni che, invece, ne ha soltanto 35. La sensazione avuta in precedenza non era sbagliata. La vita, per questi indios, è dura. In particolare ci colpisce il discorso relativo all'alto tasso di mortalità infantile. I parti avvengono in casa, senza alcuna assistenza medica, e i bambini possono morire per una semplice febbre tanto è vero che nel villaggio c'è un cimitero esclusivamente di bambini. Fernando ci promette di portarci l'indomani. Il giorno seguente non inizia di certo allegramente. Consumata la colazione, come promesso, Fernando ci accompagna al camposanto dei bimbi di San Juan. Il cimitero è angosciante e malinconico. Michi e Mavi, entrambe, colpite nella coscienza, decidono di lasciare l'intero pacchetto di regalini alla figlia adolescente di Fernando, orfana della madre, morta durante il parto. Confrontarsi con realtà tristi e desolanti, che ti colpiscono direttamente al cuore più di ogni impareggiabile paesaggio è uno degli aspetti più brutti del viaggio. Se seguite quest'itinerario non dimenticatevi dei bimbi di San Juan. 

A qualche chilometro da San Juan c'imbattiamo in una coppia di nandù, piccoli struzzi sud americani che raggiungono la velocità di 60 km/h. Il percorso e più che mai difficile. Scendiamo e saliamo per impressionanti pendii sfidando le leggi di gravità, ma dopo l'ennesima salita appare d'improvviso l'inconfondibile mole dell'Ollague, un vulcano alto 5.869 metri, famoso per essere ancora attivo. Più volte siamo obbligati a guadare dei piccoli rigagnoli di cui testiamo opportunamente la profondità, per non rimanere bloccati col fuoristrada. Lungo il percorso, là dove lo riteniamo opportuno, ci fermiamo a contemplare magnifici panorami. Nella prima parte della giornata il paesaggio è un susseguirsi di lagune e tra tutte è la Hedionda a catturare maggiormente la nostra attenzione, per via del maggior numero di flamingos - fenicotteri andini - che vi stazionano. Alti fino a un metro, sono contraddistinti da un piumaggio bianco-roseo. Nidificando nell'alta e desolata regione della Bolivia sono una delle specie animali più resistenti esistenti in natura.

Abbandoniamo la superficie dura e compatta del terreno finora percorso per incunearci su un territorio sabbioso: el desierto di Siloli. Questo piccolo ed inconsueto deserto si sviluppa tra le montagne della cordigliera ad una quota di oltre 4.000 metri. Il cielo è blu, l'aria sottile, il paesaggio è inverosimilmente trasparente e luminoso, tanto da sembrare surreale. Col deserto cominciano i guai. Il forte vento contribuisce ad intasare di sabbia il filtro dell'aria dell'auto, problema che risolveremo con relativa facilità, ma che ci costringerà ad effettuare più di una fermata. Pranziamo sfruttando, come riparo dal vento, un gruppo di rocce che affiorano dalla sabbia. Nonostante il sole e l'ora (le 13:00) fa molto freddo. Mangiamo tutti imbacuccati, con i cappelli ben calcati sulle teste. Tra le rocce trova un habitat favorevole la biscaccia, un roditore selvatico simile a un coniglio dalla lunga coda. Qui vediamo anche la maggior concentrazione di llalareta, la caratteristica pianticella delle Ande (una sorta di muschio) che cresce di un millimetro l'anno, ricoprendo le rocce.

Nel tardo pomeriggio raggiungiamo la Laguna Colorada a 4.278 metri di altitudine. Il vento che ci aveva infastidito per tutto il giorno è improvvisamente calato, purtroppo… Purtroppo in quanto non possiamo godere del caratteristico colore rosso che contraddistingue le acque della laguna. La colorazione è determinata dall'alga e dal plancton che crescono in queste acque ricche di minerali, le quali però devono essere mosse dal vento, appunto, per assumere l'insolita colorazione. Vediamo, soltanto, una grande macchia rossa al centro dello specchio d'acqua, ben poca cosa rispetto a quello che avremmo dovuto vedere, ci dice Ibert. Tutt'intorno, il lago è contornato dalla schiuma bianca del borace, ovvero sali depositati e solidificati di sodio e magnesio. Da lontano, i mucchi di borace più vicini a riva sembrano degli iceberg e creano un forte contrasto con il verde circostante. La notte alla Laguna Colorada è stata la più fredda. Abbiamo dormito in una camerata con la cuffia in testa e cinque, sei coperte. Niente riscaldamento, niente acqua. Niente altro che freddo. 

Nel freddo pungente del mattino presto, lasciamo il rifugio alla volta del Cile. Saliamo gradualmente lungo una spettacolare carrareccia arrivando con il 4x4 fino all'invidiabile altezza di 4.950 metri, ma quanta fatica. A causa dell'aria rarefatta, della bassa pressione atmosferica e del freddo (- 10°C) il motore invia prima vari segnali premonitori e, poi, cede totalmente. Ci fermiamo, oltretutto, in una zona all'ombra, che significa freddo! Ibert scende, apre il cofano, controlla, … siamo in panne! Riusciremo a partire soltanto dopo un'ora e mezza, per raggiungere il passo dove si trovano le pozze di fango, in ebollizione, del Sol de la Mañana. In questo luogo infernale dall'intenso odore di fumo e zolfo abbiamo tempo e modo per riscaldarci avvicinandoci alle calde pozze. Lo facciamo a nostro rischio e pericolo, ben oltre il limite consentito. Nonostante tutto il freddo incamerato nelle ossa sembra non voglia dileguarsi perciò è una vera e propria lotta prendere posto, sul fuoristrada, dalla parte del finestrino in cui batte il sole. Ci riescono Cece e Mavi, i quali possono permettersi di restare con una maglietta, mentre io e Michi, sul lato opposto, viaggiamo indossando il piumino. Dopo tutto il freddo patito c'è chi, come Mavi, ha ancora voglia e coraggio di bagnarsi nelle sì, calde acque della laguna di Chalviri, sferzate, però, dall'aria gelida. 
Attraversiamo la spianata delle rocas de Dal,. un'insieme di pietre e rocce, che ricordano i dipinti del grande artista spagnolo e infine giungiamo alla Laguna Verde. A differenza della Laguna Colorada, siamo fortunati. I riflessi verdi effetto della concentrazione di minerali - piombo, carbonato di calcio, zolfo - contenuti nell'acqua ci avvolgono e ne restiamo incantati. Alle nostre spalle, incombe, come una sentinella, il Licancabur (5.918 mt.), che segna il confine con il Cile. La cima è conosciuta da noi italiani in quanto fu salita da Walter Bonatti. L'ultima laguna, la Blanca, è parzialmente gelata. Per l'alta concentrazione di sali minerali, è ancora più difficile che le acque di questi bacini gelino e questo la dice lunga sulle temperature incontrate durante tutto il tour del Sud Lipez. Un inaspettato ristorantino compare tra la Bolivia ed il Cile. Qui, tempo permettendo, tutte le mattine un minibus sale da San Pedro de Atacama (Cile). La frontiera si trova qualche chilometro più avanti. 

Il Sud Lipez è un percorso non per tutti, difficile e avventuroso, ma caratterizzato da scenari maestosi. Le lagune incastonate ed i deserti incorniciati, tra le catene Andine, insieme all'avversità atmosferiche ed alle elevate altitudini, creano uno degli ultimi paradisi, per i viaggiatori in cerca d'avventura.

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